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Agli inizi degli anni ottanta mi trovavo a frequentare paesi africani di recente costituzione, il Mali, il Burkina Faso, il Niger, giovani paesi in via di sviluppo ma con una storia millenaria alle spalle. Mi recavo in questi paesi almeno una volta ogni due mesi, ed essendo i ritmi africani di certo non paragonabili a quelli europei, i miei soggiorni duravano molti giorni, quindi approfittai di questo "tempo libero" per conoscere il paese, i suoi usi, le sue tradizioni. Ben presto presi coscienza dell'esistenza di una storia africana precoloniale che aveva le sue radici in epoche molto remote, ed il suo apice in un periodo storico corrispondente al nostro Medioevo. Le fonti di informazione di questa storia erano i riti ancestrali e le leggende che risalivano sino agli albori della comparsa dell'uomo sulla terra. Immancabilmente, in questo mio vagabondare tra griot, feticheurs e marabut, finii per frequentare i venditori di testimonianze di questi antichi racconti, e cioè gli antiquaire, che, da buoni commercianti, avevano la loro sede nel mercato principale della città, dove - insieme ai venditori di stoffe, alimentari, ornamenti e quant'altro fosse vendibile - si riattualizzava ogni giorno una delle tradizioni millenarie dell'Africa.
Il Marché rose di Bamako era senz'altro uno dei più belli (era, perché purtroppo alcuni anni fa è bruciato con tutte le testimonianze ed i tesori che custodiva). Ad ogni mio soggiorno maliano vi passavo ore ed ore a cercare testimonianze di queste antiche civiltà, che videro gli imperatori maliani governare su tutta l'Africa occidentale, commissionare moschee imponenti a Djenné e Tombouctou, effettuare pellegrinaggi alla Mecca di cui ancora oggi si favoleggia. Tra queste testimonianze, costituite da vasi e personaggi in terracotta, bronzi, ferri forgiati e collane in pietra e pasta vitrea, la mia attenzione si concentrò sulle collane che erano offerte in gran quantità, tanto che pensavo si trattasse d'artigianato locale. Al contrario di quella locale invece, mi stupiva la non ripetitività della produzione, trovando ogni volta fili di perle vitree diverse, tutte armoniose e ben patinate.
Da un'attenta disamina dei vaghi che costituivano queste collane, mi accorsi ben presto che non si trattava di artigianato locale e neppure di produzione autoctona antica, ma di materiale di importazione europeo, mediorientale, indiano ed egizio tardoromano. Il confronto tra queste perline maliane con quelle veneziane, siriane, persiane ed egiziane esposte nei maggiori musei italiani ed esteri, mi confermò questa prima sensazione e presi atto che sui mercati africani venivano offerte, insieme a collane di finto avorio e corallo di plastica, collane assemblate con perle vitree di diversa provenienza che circolavano in questi paesi da centinaia - quando non da migliaia - di anni.
Fu così che organizzai il primo viaggio in Mali finalizzato specificatamente alla ricerca della provenienza delle collane: dove, come e perché venissero raccolte e quale significato avessero per le popolazioni che le usavano.
Il punto di partenza fu sicuramente ancora il Marché rose di Bamako in Mali, dove appresi che tre erano le fonti:
- i nomadi del deserto a nord di Timbouctou e Gao, che riportavano grani in cornalina, quarzo ed amazzonite, dischetti d'uovo di struzzo e pendenti in conchiglia fossile, trovati in luoghi oggi desolati, ma che 4.000 anni or sono abbondavano d'acqua, di fiumi e di animali selvaggi, come testimoniano i graffiti rupestri dell'Adrar des Iforas, dell'Hoggar e del Tassili;
- i pastori Peul del Delta interno del Niger che, pascolando tra le vestigia d'antichi insediamenti degli imperi del Sudan, sulle necropoli dilavate dalle esondazioni del Niger, raccoglievano perline medioevali facenti parte del corredo funerario degli antichi abitanti dell'impero del Mali, del Ghana e Songai;
- i Dogon dei villaggi più isolati, che hanno conservato per centinaia d'anni la loro identità al riparo delle invasioni musulmane e coloniali e che solo ora si separano dai loro tesori per far fronte alla siccità, alle malattie o molto più tragicamente per abbandonare i loro villaggi divenuti invivibili: ecco le perline veneziane, boeme ed olandesi.
Queste informazioni mi aprirono un sipario su un inimmaginato scenario di vita agreste in luoghi impensabili, di scambi commerciali in epoca medioevale tra il Mali con il Medio Oriente, il Mediterraneo e l'India, di contatti con mercanti portoghesi fin dal XVI secolo, di collegamenti commerciali in epoca coloniale fino ai giorni nostri.
La collezione di collane esposte in questa mostra è il frutto di circa vent'anni di ricerche sul campo o presso raccoglitori maliani nelle tre aree sopra citate. Tutto - compresi gli esemplari più enigmatici - proviene dal territorio maliano e costituisce quindi un'esaustiva testimonianza dell'esistenza di tre periodi ben definiti storicamente e ben identificabili per tipologia di materiale, che rendono ben leggibile il percorso storico indicato.



Perline di produzione neolitica

Al Neolitico si riferiscono le collane in quarzo, in guscio d'uova di struzzo, in conchiglia fossile, in cornalina ed in amazzonite (cat. 32) provenienti dalle regioni desertiche comprese tra le città di Tombouctou, Gao e la regione sahariana dell'Adrar des Iforas. Durante le loro transumanze, i nomadi Tuareg raccolgono in queste regioni, sulla superficie sabbiosa in continuo movimento, le testimonianze d'antichissime presenze risalenti al periodo del Sahara fertile, tra il 6.000 ed il 1.000 avanti Cristo, ben documentate da Henri Lhote nel 1958, quando riportò a Parigi le riproduzioni di pitture e graffiti rupestri ritrovati a sud del Sahara.
Per diversi anni il suolo neolitico della regione di Gao è stato studiato con particolare attenzione per quanto attiene agli ateliers di lavorazione delle perle in cornalina e quarzo, alle fonti d'approvvigionamento ed al loro riutilizzo in epoca moderna
1.
A nord est di Gao, nel sito d'Ilouk, hanno individuato un importante atelier d'estrazione della cornalina, dove l'esame del materiale trovato permette di ricostruire senza troppi errori le tecniche d'estrazione: il distacco del minerale avveniva per percussione diretta dopo aver probabilmente riscaldato il blocco originale, come si può dedurre dagli attrezzi litici ritrovati in situ e dal craquelé riscontrato in alcuni frammenti di scarto della lavorazione. Dopo la riduzione a piccoli dischi, questi venivano forati non con attrezzi a movimento circolare ma a percussione laterale. Quest'operazione era particolarmente delicata e traumatica, con percentuale di riuscita alquanto bassa, come si deduce dalla gran quantità di grani spezzati ritrovati in luogo.
Il confronto dei frammenti del giacimento con i grani finiti ritrovati nei luoghi abitativi, molto più brillanti ed intensi della materia prima, lascia presumere un'operazione di lucidatura effettuata altrove.
Altri siti neolitici, dove avveniva la lavorazione della cornalina
2, sempre nella regione compresa tra l'Adrar des Iforas, Gao ed il confine con il Niger, sono:
- Lagreich, dove oltre ad un piccolo atelier per la lavorazione delle perline sono stati individuati due siti per la lavorazione "industriale" della silice per ricavarne grossi utensili, che servivano poi per la lavorazione della cornalina ed erano probabilmente esportati ad Ilouck.
- a Telataye, ad est di Gao, dove le perline presentano un colore arancio scuro molto brillante, vere e proprie cornaline, molto simili a quelle che alcune migliaia d'anni dopo saranno importate dall'India.
- Taguelalt, poco distante da Talataye, sede di un'altra industria di perline di cornalina di buona qualità e, come in tutti gli altri siti sopra descritti, presenta un'assenza totale di grani finiti: questi si trovano solo nelle stazioni abitative, nelle tombe e nei souks di Tombouctou e di Gao. La differenza tra quest'ultimo atelier e i primi descritti sta nella perforazione delle perline.
E' convinzione comune che perforazioni lunghe, diritte e regolari siano caratteristiche di perline non antiche, in quanto per ottenere tali perforazioni è necessario una punta metallica. Si tratta di un'opinione errata: il calcedonio (minerale della cornalina), di durezza sette, non può essere perforato né dal bronzo né dagli acciai moderni; solo da abrasivi al quarzo o al diamante possono attaccarlo ed è questa la tecnica utilizzata a Taguelalt, dove le perforazioni sono perfettamente cilindriche, senza modificazione di diametro, con pareti perfettamente lisce, ottenute con un abrasivo a pasta fine miscelato con grasso animale, utilizzando come punta spine d'acacia montate su un mandrino animato per mezzo di un archetto. In un atelier per la lavorazione della cornalina a Taouardi, a sud dell'Adrar des Iforas (260 Km a nord di Gao), sono stati studiati numerosi campioni di perle semilavorate
3 e a soli 5 Km vi fu ritrovato un affioramento relativamente esteso di calcedonio di colore giallo-bruno.
Seguendo gli appunti di Lhote, fu rinvenuto il sito dove veniva lavorata la silice quarzifera, donde provengono le grosse perline a disco trasparenti (cat. 32)
4.
L'amazzonite, detta anche lo smeraldo dei Garamanti, è ritrovata nelle stesse stazioni abitative neolitiche, nelle stesse tombe della regione di Tombouctou e Gao, ma anche nelle stazioni protostoriche d'Oudane in Mauritania, sempre in grani singoli ed in piccole quantità
5.
Comunque e sempre si trattava di materiale d'importazione, essendo il minerale base dell'amazzonite (felspato-silicato doppio d'alluminio e potassio) originario dell'alto Egitto, del nord del Tibesti, dell'Air e del'Hoggar
6.
L'epoca in cui queste perline sono state lavorate dovrebbe essere più recente di quella delle cornaline e dei quarzi. Almeno i grani più grandi e lunghi, che richiedono attrezzi di lavorazione più sofisticati
7, dovrebbero risalire ad un'epoca post-neolitica.
Le collane di conchiglia fossile (cat. 33), ritrovate raramente in Mali, sono molto più frequenti in Mauritania, dove sono i giacimenti di Arca senilis Linnei, presenti nelle formazioni quaternarie mauritane (tra 39.000 e 29.000 anni a.C.) di Inchirien e di Nouakchottien
8.
I minuscoli dischetti d'uovo di struzzo (cat. 33) non hanno una provenienza certa, anche se provengono sicuramente dal Mali orientale. Si hanno delle informazioni di ritrovamenti di piccoli collier d'uova di struzzo in luoghi di sepoltura in stazioni neolitiche nella regione dell'Adra
9, confermando la teoria secondo la quale le perle ritrovate nelle sepolture rappresentassero un simbolo religioso del culto funerario10.



Perline di produzione islamica e indiana

Dopo le testimonianze riferite al periodo preistorico dell'area sub-sahariana, si attesta un periodo oscuro di oltre dieci secoli a cavallo della nostra era, a partire dalla disgregazione dell'Egitto antico sino agli albori del VII secolo11.
Sono momenti storici che possono avere determinato il fluire delle migrazioni e il costellarsi degli insediamenti in quell'area subsahariana le cui dinamiche, data la latitanza delle fonti documentarie, sono da ricercarsi e da leggersi alla luce degli studi comparati tra introspezione archeologica e lettura della morfologia e della infrastrutturazione naturale del territorio: la valle del Niger ha sempre rappresentato un crocevia naturale tra le direttrici nord-sud del commercio trans-sahariano e quella est-ovest che la mette in contatto con le popolazioni della valle del Nilo
12. "Non è lecito comunque supporre una parallela automatica costanza di relazioni tra l'uomo e il suo ambiente, né un'identità nel tempo delle strutture che si sono succedute in un luogo. A volte queste variano radicalmente per il diversificarsi delle fasi di sviluppo civile che, nel medesimo luogo, si susseguono secondo criteri evolutivi caratteristici"13.
Nel 642 inizia l'espansione musulmana verso l'Atlantico, inducendo una progressiva rotazione da oriente ad occidente dei principali poli di riferimento esterno: dal regno di Kush e di Axum - aperti agli scambi con il Mar Rosso e con l'Oceano Indiano - all'Egitto, alla Cirenaica ed infine all'Algeria e al Marocco. Testimonianze puntuali ci sono fornite da studiosi arabi, geografi e storici che viaggiavano al seguito di queste spedizioni islamizzatrici: raccontano dell'organizzazione statale e delle genti che abitavano l'Africa occidentale agli albori del primo millennio
14.
Ad islamizzazione compiuta, intorno al XII sec.d.C., i pellegrini in partenza da tutti gli angoli dell'Africa musulmana, percorsero le strade commerciali dirette alla Mecca, che divenne un grande centro di compravendita di grani da preghiera (nei materiali più svariati) provenienti da tutto il mondo. Così i pellegrini africani poterono acquistare e importare nel proprio paese collane in pasta vitrea siriane e persiane che ricordavano i motivi mesopotamici di 4000 anni prima, perline egiziane e levantine (Libano) in stile punico-romano ed ancora corniole ed agate indiane, oltre ad ambra e corallo.
In questo periodo i commercianti arabi diventarono una forza vitale del commercio internazionale. Strade carovaniere e vie marittime collegavano i centri mercantili islamici con la Scandinavia, l'Africa orientale, la Cina e l'India, diffondendo stili, materiali e prodotti islamici. Perline di vetro a mosaico sono ritrovate in siti vichinghi del XI sec., e perline "a occhio" blue eye in Albania, in una citta della del VII sec. d. C. (conservate presso il Museo di Tirana).
Per quanto attiene all'Africa occidentale, navi arabe imbarcavano pietre semi-preziose in India e le trasportavano sulle coste dell'Africa orientale, dove venivano ritirate da carovaniere - in cambio di avorio ed oro - e portate alla Mecca e al Cairo, da dove imboccavano le vie sahariane verso i più importanti centri africani, Agades, Gao, Tombouctou e Djenné.
Tra il 900 e il 1.000 della nostra era il Cairo - a quell'epoca chiamato Fustat - diventa un centro importante per i produttori di perline. Importavano e lavoravano cauri ed avorio africano oltre a produrre splendide perline vitree che riproponevano i modelli romani, egizio tolemaici e fenici ormai rarissimi sul mercato (cat. 41). La perfezione di queste riproduzione è tale che per decenni libri specializzati in perle vitree da collezione le hanno catalogate come d'origine romano-tolemaiche
15.
Le perline islamiche appartengono all'ultima fase della produzione vetraria del Medio Oriente, ispirandosi a tradizioni preislamiche e richiamando stilemi mesopotamici ed egizi: motivi a filatura, a piuma, a festoni ed a mosaico, prodotti usando la tecnica delle perle romane. Il mondo islamico comprendeva infatti molte regioni ove si erano sviluppate tecniche di lavorazione del vetro: l'Egitto, la Mesopotamia, la Siria, l'Iraq e la Persia sasanide.
Grande importanza era attribuita al colore: il blu, colore del cielo, era quello più diffuso. Il materiale con cui si fabbricavano queste perle - che assurgevano al rango di amuleti - è non solo il vetro ma anche le pietre: per esempio la turchese - in arabo fayruz (pietra della fortuna) - proteggeva dal veleno e dalle malattie oftalmiche, ma con il passare del tempo, esposta al calore ed ai raggi solari, cioé con l'uso prolungato, tendeva a cambiare colore annunciando l'approssimarsi della morte.
La cornalina teneva lontana la sventura e proteggeva dall'invidia: era inoltre considerata sacra dai musulmani perché il Profeta Maometto portava un anello con un sigillo in cornalina yemenita. I musulmani hanno sempre considerato la matematica come parte integrante dell'arte: tutte le forme derivano da strutture geometriche e tra esse il cerchio e la sfera assumono un valore simbolico e cosmologico primario
16.
Nel XII secolo i matematici arabi scoprirono che tutte le forme geometriche regolari derivano dalla sfera. Così gli orafi e i tagliatori di gemme arabi, ma specialmente gli iraniani, realizzarono grani poliedrici sfaccettando le sferette con suddivisioni della superficie in esagoni ed ottagoni. Questa tecnica, praticata su turchesi e lapislazzuli in Iran nel secolo XII, si diffuse anche nei laboratori della lavorazione di pietre dure come l'onice, l'agata e la cornalina in India e in Pachistan a partire dal secolo XV
17.
La documentazione scientifica più completa, che ci permette di datare in maniera relativamente certa le perline di vetro, cornalina, agata di provenienza egiziana, medio orientale e indiana ci proviene sicuramente dagli scavi archeologici delle città medioevali di Tegdaoust e Koumbi Saleh in Mauritania. Che Tegdaoust sia l'antica Aoudaghost non è mai stato confermato, ma i ritrovamenti fatti e i racconti di Al Bakri (1068 d.C.) sulla bellezza, la prosperità e la ricchezza della città tutto ci permette di supporre che lo sia. Lo stesso dicasi per Koumbi Saleh, presunta capitale dell'Impero del Ghana.
Dalle necropoli di queste città sono riaffiorati tesori in pasta vitrea di diverse provenienze:
- perline egiziane del X-XII sec. d.C. del tutto simili a quelle che si possono ammirare al museo del Cairo
- perline alessandrine e siriane
- perline di vetro avvolto con inclusioni ondulate gialle d'ispirazione mesopotamica e meroitica
- perline a melone bombate di color azzurro opache, provenienti dalla Persia sasanide insieme a frammenti di grani ovoidali in agata bruna
- perline in cornalina di produzione locale e d'importazione (come testimonia un frammento di pendente con iscrizioni cufiche d'epoca almoravide)
- perline in terra cotta di color bruno scuro di produzione locale
- perline di bronzo ad alto tenore di rame di produzione locale
La stessa tipologia delle perle provenienti dalle due antiche città si ritrova nei siti archeologi maliani, nella regione di Djenné, Tombouctou, Gao, e lungo tutto il fiume Niger, dove purtroppo, allo stato attuale delle ricerche, non è ancora stato documentato il ritrovamento archeologico di una perlina.
Insieme alle perline sopra descritte, soprattutto nella regione a sud di Tombouctou, sono state ritrovate delle paste vitree colorate con inclusione ad occhio, del tutto simili alle perle puniche che si possono ammirare al Louvre, al museo di Tunisi e di Mozia e alle perline romane ed egizio-tolemaiche di vetro avvolto con inclusioni ad occhio, simili a quelle del museo del Cairo (cat. 41). Resta l'interrogativo se siano perline prodotte sul posto da artigiani provenienti dalla costa, oppure provenienti direttamente da città costiere del Mediterraneo o dell'Egitto romano. E' d'altronde naturale che i Cartaginesi avessero contatti con le popolazioni berbere - come confermano i ritrovamenti di monete e di vasi punici in Marocco - e che i romani, attraverso i Garamanti, avessero avuto contatti sporadici con le popolazioni al sud del Sahara
18.
Un'importante scoperta archeologica dibattuta durante il VII Convegno Internazionale di Studi sull'Africa romana, svoltosi a Sassari nel 1989, renderbbe possibile la teoria che manufatti vitrei romani (perline) siano giunti in Africa occidentale subsahariana. A Tafarit, ad 80 km da Tamanrasset, tra Algeria e Mali, nel 1903 fu scoperto un monumento funerario unico nel suo genere in tutto il Sahara: una costruzione ellittica di 26.25 metri per 23.75 costruita da 11 ambienti, con muri spessi da 1.4 mt. a 3.3 mt. e alti non meno di 2 mt. In una di queste stanze è stato trovato un corpo di donna - chiamata Tin Hinam - (oggi conservato al Museo del Bardo ad Algeri) con il suo corredo funerario formato da centinaia di perline in pasta di vetro, cornalina, agata, amazzonite, anelli d'oro, frammenti di vetro, palline d'oro, un braccialetto di ferro ritorto, diversi in oro e argento, un calco in oro di una moneta dell'epoca di Costantino e una lucerna, oltre a oggetti che si sono dissolti al momento della scoperta. Alcuni frammenti lignei del letto funebre sottoposti al C14 hanno fornito il risultato 470+/-130 d.C., la lucerna sicuramente romana di tipologia databile non oltre il III secolo d. C. e di vetri classificati come tardo romani.
Inizialmente la costruzione in esame potrebbe essere stata la dimora della mitica Tin Hinam o addirittura una costruzione fortificata romana, avamposto per penetrazioni militari in Africa, come la spedizione di Cornelio Balbo, nel 19 a.C., contro i predoni berberi
19.
L'importanza di questa scoperta sta nel fatto che Tafarit è situata alla confluenza degli oued Tifirit ed Abelessa, che controllavano le principali vie di comunicazione tra il nord ed il centro dell'Africa, tra cui le carovaniere tra l'Adrar e Agades, Gao e Tombouctou
20.
Concludendo, possiamo azzardare l'ipotesi che le perline ritrovate in Mali non si riferiscano alla datazione delle perline di Tafarit, ma potrebbero essere di origine Garamantica: Garati - provincia romana in Libia - ha avuto stretti rapporti commerciali con le provincie romane in Africa e con l'Africa dell'interno, e sicuramente anche dopo la caduta dell'Impero romano avrà continuato la produzione di oggetti romanizzanti sfruttando il know-how della lavorazione del vetro, della ceramica e dei metalli, e sicuramente le vie carovaniere esistenti hanno continuato a trasportare e scambiare merci tra il Mediterraneo e le regioni al di là del Sahara.
Queste perline facevano parte della tipologia più famosa d'uso apotropaico cioè la perla ad occhio d'origine mesopotamica, egizia (Horus-udjat nell'Egitto dinastico), fenicia, romana, ma sono soprattutto gli arabi i maggiori produttori. Il Corano parla delle stelle come di perline del cielo che sono splendenti e luminosi occhi celesti che proteggono rischiarando i cieli oscuri (Liu-Beads in the Sudan)
21. L'ideologia dell'occhio del male, o malocchio, è molto complessa, ed in molte società è ancora molto diffusa la credenza che la forza malefica che si sprigiona dall'occhio di determinati individui possa arrecare danno alle persone o ai loro averi, o tormentarli con sentimenti negativi, come la gelosia o l'odio. Per contrastare tale influsso negativo si oppone uno sguardo, un occhio superiore che può prendere la forma di una perlina. Le origini di questi amuleti sono molto antiche e l'archeologia ci viene in aiuto: in scavi sumerici di siti del III millennio a.C. troviamo grani di pietra, con incisi disegni di occhi, agate variegate e tagliate in modo da produrre un effetto ad occhio, cornaline con motivi ad occhi, incise all'acquaforte, il tutto supportato da testimonianze scritte su tavolette d'argilla in cui si parla di malocchio.
Con l'invenzione o l'introduzione del vetro in Asia minore, in Egitto ed in Europa, uno dei primi manufatti vitrei fu la perlina a occhio
22.
Nell'antico Egitto tra laV e la XII dinastia erano molto diffusi amuleti con gli occhi di Horus, gli udjat che proteggono dagli sguardi malefici.
Sembra che i romani non usassero riti o pratiche scaramantiche contro il malocchio, ciò nonostante il periodo fornisce una grandissima produzione di perline a occhio prodotte probabilmente per essere esportate in tutto l'impero, per le genti che ne faceva largo uso.
Benché la dottrina ebraica rinneghi le superstizioni popolari, gli antichi ebrei temevano il malocchio e usavano rimedi contro di esso. Per proteggere le case e gli edifici di culto, vi si dipingeva un simbolo chiamato l'occhio molto tollerante, come quello ritrovato in una sinagoga del III sec. d.C. in Siria presso Dura-Europos e in un dipinto murale del monastero cristiano di Bawit in Egitto del VI secolo d.C.
23. E' però nel mondo islamico che la credenza del malocchio e l'uso di amuleti protettivi a occhio trova la sua massima espressione. Tale amuleto era denominato, per rispetto e per evitarne gli effetti malefici, l'occhio magnifico che svuota i castelli e riempie i sepolcri24. La maggior parte dei musulmani fin dalla nascita porta una qualche forma di amuleto protettivo, meglio se a occhio, meglio se antico; più antico è maggiore è la potenza.
Lo sguardo dell'occhio del male è considerato particolarmente dannoso per le donne incinte e per i bambini, come minaccia dell'esistenza della popolazione umana, ed è quindi per questo che grandi quantità di perline islamiche sono state ritrovate dall'Africa all'Indonesia, sia in ritrovamenti archeologici sia in vendita nei mercati locali, dove circolano da secoli.
La produzione di perline di vetro in Asia minore, tradizione che durava da oltre tremila anni, agli inizi del XV secolo terminò traumaticamente quando gli eserciti mongoli di Tamerlano conquistarono Damasco, Tiro, Aleppo e Sidone nel 1401 e molti artigiani vetrai furono deportati a Samarcanda.



Perline di produzione europea

Lo sbarco di Vasco de Gama in India e la scoperta dell'America segnano la fine della produzione vetraria araba per lasciare il passo a quella veneziana, che già nel XIV secolo, con il trasferimento di tutte le vetrerie a Murano, e l'emanazione di severissime leggi per la protezione del know-how delle lavorazioni, diventa la capitale mondiale nel settore delle perline: inizia l'era dell'espansione europea.
In realtà la produzione vetraria veneziana è molto più antica. Infatti sulla isola del Torcello sono state ritrovate fornaci con frammenti di vasi e tessere di mosaico in un contesto archeologico risalente al 600-650 d.C.
25.
E' impossibile dimostrare una continuità tra la produzione vetraria romana e quella veneziana, ma è lecito ritenere che il suo sviluppo "industriale" nel Medioevo sia stato possibile, grazie ai legami culturali e commerciali di Venezia con Bisanzio ed il Mediterraneo orientale. Si pensa inoltre che dopo la caduta definitiva di Costantinopoli nel 1453, molti vetrai si trasferirono a Venezia per non cadere sotto la dominazione ottomana.
La produzione e l'esportazione di perline veneziane era già attiva già nel 1300, quando le navi della Serenissima portavano merci nel Mar Nero, nelle Fiandre, in Inghilterra, in Tunisia, in Algeria e Marocco.
Nel secolo XIV i veneziani, con i pisani, avevano praticamente il monopolio dei traffici tra l'Europa e il nord Africa (la Berberia), sul cui litorale possedevano depositi e rappresentanti, a Kairouan, Constantine, Tlemcen.
Gli europei erano ben accolti nei porti berberi, a patto che non si spingessero all'interno del paese e che lasciassero agli arabi il compito di trasportare verso sud il rame, le perline di vetro (cat. 43), i braccaletti e le stoffe che arrivavano da Venezia.
Un documento importantissimo a questo proposito sono le memorie di un letterato di Tlemcen, tale Ahmed Ibn Mohammed El Makkari, che racconta le attività commerciali dei suoi antenati. I Makkari facilitavano i viaggi attraverso il Sahara, scavando pozzi e curandone la manutenzione, procurando guide e salvacondotti per le carovaniere. Lungo il percorso tra il Mediterraneo e l'Africa sud-sahariana, a Sidjilmessa, ed al capolinea a Oualata, al di là del Sahara, altri membri della famiglia si occupavano di ricevere le merci europee, rimunerandole con oro, avorio, pelli pregiate che ricevevano dai regni sudanesi, con i quali intrattenevano ottimi rapporti. Le vie carovaniere utilizzate per questi contatti nord-sud erano già note, come informa Tolomeo
26.
I progressi tecnici della navigazione, del XVI secolo, permisero a grandi navigatori come Colombo,Vasco de Gama, Magellano, di aprire con le loro audaci scoperte, i collegamenti marittimi tra l'Europa e quasi tutte le terre del mondo.
In questi nuovi territori raggiunti, d'Africa e d'America, il vetro era considerato più raro delle pietre dure e preziose, per cui si aprirono per i mercanti europei prospettive enormi di guadagno, che stimolarono l'aumento della produzione delle perline prima molto limitato a causa della scarsa domanda dei mercati tradizionali.
Secondo un rapporto del 1632, il profitto ricavato dallo scambio delle perle di vetro veneziane con le pellicce del Nord America, con l'avorio, l'oro e gli schiavi africani ammontava al 1000 per cento, per cui le perline divennero un elemento importantissimo del commercio internazionale, che coinvolgeva le compagnie marittime portoghesi, spagnole, francesi ed inglesi
27.
I vetri veneziani, con altre merci europee, diedero origine ad un complesso ciclo commerciale: sfruttando l'esperienza e la tradizione d'antiche reti commerciali arabe, si diffusero in tutto il continente, scambiate con schiavi che venivano importati nel nuovo mondo e con l'avorio che raggiungeva le corti imperiali europee. Dalle Americhe arrivavano zucchero, tabacco, argento e oro.
Nel 1525 esistevano a Venezia 24 vetrerie, nel 1606 il registro dei produttori di perle riscontrava 251 iscritti!
Nel 1764 la produzione delle 22 più importanti vetrerie muranesi che avevano assorbito o si erano fuse con altre, era di 19.000 Kg. di perline a settimana, quasi esclusivamente destinate all'esportazione. Dopo la caduta della repubblica di Venezia per opera di Napoleone nel 1797, l'industria subì un notevole arresto, anche a causa del trasferimento di molti operai in Francia. Dopo le guerre napoleoniche le industrie vetrarie veneziane conobbero nuovi splendori, al punto che intorno al 1880-90 le esportazioni verso gli Stati Uniti superavano le 2.700 tonnellate l'anno
28. In quegli anni, finita la tratta degli schiavi, iniziava l'avventura coloniale in Africa e quindi aumentò enormemente il consumo di perline, considerate ancora l'unica moneta di scambio.
In quegli anni, finita la tratta degli schiavi, iniziava l'avventura coloniale in Africa, quindi il consumo di perline, considerate ancora l'unica moneta di scambio.
La produzione veneziana di perline era fortemente influenzata dai modelli egizi e romani, non solo nel disegno e nel colore, ma anche nella tecnica di produzione che rimase immutata fino al tiraggio delle canne cave, ed all'invenzione dello stampaggio. Ritorna l'uso delle perline a rosetta, a mosaico o millefiori e monocrome sfaccettate.
Furono riproposti anche modelli arabi, che a loro volta si rifacevano all'arte vetraria mesopotamica e meroitica. Sono di questa tipologia le perline a piumetta, a occhio e a filatura scritta. Oggi si ritrovano nei mercati e nei siti archeologici medioevali africani perline arabe del XI-XV secolo d.C. riproducenti motivi mesopotamici e mediterranei, veneziane del XIX-XX secolo d.C. con motivi romani ed egiziani, e la tradizione continua ancora oggi con la produzione moderna indiana ed africana (Ghana, Nigeria e Costa d'Avorio).
Il grande successo dell'industria vetraria veneziana dipese, oltre che dai motivi sopra citati, anche dalla grande capacità di adeguarsi ai gusti dei mercati locali, e di adattare la produzione alla domanda. Dato che i gusti variavano da paese a paese e da etnia ad etnia, anche all'interno dello stesso territorio, la varietà di forme, decori e colori fu enorme. Si calcola che i tipi di perline prodotte a Venezia fossero più di 100.000.
In questa sede è impossibile dunque tentare una suddivisione o una catalogazione delle perle veneziane, anche solo di quelle destinate al mercato africano, ma è interessante citare un'importante documentazione acquistata dal British Museum di Londra nel 1865 dal mercante di perle Moses Lewin Levi che operò dal 1830 al 1913. In centinaia di cartelle sono catalogate migliaia di perle veneziane, boeme e cecoslovacche con indicazioni circa l'anno di produzione, il luogo di destinazione e l'uso; infatti specifiche perline erano destinate all'acquisto dell'oro, dell'avorio, dell'olio di palma e degli schiavi.
Ogni tipologia era stata concepita su indicazione precisa della tribù che deteneva quel tal prodotto: le perline destinate all'acquisto dell'oro in Africa occidentale erano prevalentemente gialle con motivi a occhio e a filatura scritta (cat.45A, in alto); quelle per l'avorio in Africa centrale monocrome perlopiù rosse e turchesi; quelle boeme per l'acquisto degli schiavi erano biconiche o cilindriche plurisfaccettate, quasi tutte blu. Tale documentazione è visibile presso il Museum of Mankind di Londra.
Nel XVIII secolo,Venezia deteneva pressoché il monopolio del mercato delle perline di vetro nei quattro continenti conosciuti, ma non le fu possibile conservarlo a lungo, perché già dal X secolo in Boemia ed in Moravia esisteva una produzione di perle di vetro facilitata dalle foreste di betulle che fornivano combustibile per le fornaci, non altrettanto abbondante invece per le vetrerie di Venezia e Murano
29. Quando nel XVII secolo i boemi vengono a conoscenza delle tecniche di fabbricazione di Venezia, iniziano ad esportare perle in pasta vitrea in Russia, Scandinavia, Francia, Inghilterra ed in tutto l'Impero ottomano. Dopo la metà del XVIII secolo le perline boeme arrivarono in tutto il mondo al pari di quelle veneziane. Dapprima la produzione era costituita da imitazioni delle perline veneziane (cornalina d'Aleppo e rosette o chevron), poi cominciò ad avere una sua originalità: perline base stampate, riconoscibili dalla linea di giunzione mediana e sfaccettate con la stessa tecnica che era usata nella regione per lavorare i granati. Nascono così le perle conosciute in Africa con il nome di vaseline e mossi ed in epoca moderna television, ma il grande successo arriva nel XIX secolo con le perle vitree ad imitazione dell'agata e della cornalina indiane, della bauxite e del granito africani (cat. 50). Le perle in vetro sono più economiche e disponibili in maggior quantità delle materie prime naturali che imitavano30.
Si rinnova così il fenomeno per cui merci importate sono preferite a prodotti locali non solo per la loro economicità, ma perché considerate migliori, perché provenienti dall'Europa. Lo stesso fenomeno dei tessuti in cotone africani, ai quali venivano preferiti materiali sintetici europei (oggi orientali).
Un discorso a parte merita la produzione di perle in agata provenienti da Idar-Oberstein in Germania, una produzione iniziata nel 1323 e perfezionata nel 1500 con il taglio sfaccettato probabilmente di agate locali, ma è nel 1830 che inizia un grande commercio di pietre dure abilmente tagliate in Germania utilizzando materia prima importata dal Brasile. Da questa data fino a tutto il 1980, più di 100 milioni di perline sono stati esportati in Africa, ma in Mali queste perline sono arrivate solo in piccolissime quantità: essendo una produzione relativamente recente, la capacità di acquisto di questo paese era già seriamente compromessa, inoltre in epoca coloniale francese la Compagnie francaise de l'Afrique occidentale, non commerciava certo prodotti tedeschi, paese con il quale non correvano buoni rapporti politici.
Molto diffuse sono invece in tutta l'Africa centro-occidentale le perline di fabbricazione olandese, molto simili a quelle veneziane, ma con una varietà molto limitata di modelli. La produzione di perline olandese ebbe una vita breve ma molto attiva. Iniziò intorno al 1850 ad opera di vetrai veneziani che riprodussero motivi e tecniche di lavorazione italiane e diffusero i loro prodotti in tutto il mondo allora conosciuto approfittando della potenza commerciale olandese. Il nord America e le colonie indonesiane furono i mercati maggiori, ma anche l'Africa fu raggiunta con i coloni e gli esploratori che colonizzarono il Sud Africa. La gamma delle perline olandesi fu molto limitata ma molto caratterizzata: prevalevano quelle monocrome in vetro avvolto bianche, blu e azzurre, e perline a rosette bianche a righe blu e rosse; ancora oggi molto apprezzate presso alcune pololazioni maliane (Dogon e Bamana) (cat. 42).



Perline di fabbricazione africana

A questo gruppo appartengono le perline in quarzo siliceo, cornalina, agata e conchiglia fossile che abbiamo esaminato all'inizio della trattazione. Furono prodotte in epoca preistorica (neolitico) alla fine del periodo del Sahara umido, all'inizio della desertificazione, quando i pastori del Sahel occupavano un territorio ancora fertile e ricco di acqua, prima di essere costretti al nomadismo.
Queste perline sono ancora presenti in gran quantità in tutta l'Africa. Sono portate dalle polazioni nomadi e scambiate nei mille mercati in ogni angolo del continente nero. Proprio i discendenti di quelle popolazioni saheliane le hanno raccolte tra le antiche sepolture e gli insediamenti preistorici che la sabbia aveva ricoperto. E' difficilissimo determinare l'antichità di queste perline; accanto a quelle raccolte se ne riscontrano altre rilavorate in epoca più o meno recente utilizzando la medesima materia prima.
A questa tipologia - e con gli stessi interrogativi - appartengono le perline in granito grigio-scuro marmorizzato, riscontrabibili nella regione di Kombori (Mali) e presso i Dogon, che attribuiscono loro prodigiose facoltà magiche di protezione personale, specie se sono state possedute da qualche Hogon o feticheur. Sono di diversa fattura e misura, le più piccole tagliate a disco e quelle fino a 20 cm di lunghezza tagliate ad ellissoide. Si trovano anche pendenti a goccia o sferici assimmetrici, di fattura molto accurata e con una patina che fa supporre una notevole antichità.
Di origine più sicura, dato il contesto di ritrovamento e la possibilità di essere testate, sono le perline in terracotta che si ritrovano nei siti archeologici medioevali maliani e mauritani (cat. 38). Si tratta di perline sferiche, ellissoidali e cilindriche di color terra di Siena naturale, raramente decorate, di misura variabile tra 0,5 e 5 cm.
Agli inizi degli anni Novanta la Galleria Robin di Parigi espose una giara, ritrovata vicino a Djenné, colma di migliaia di fili di perline in terracotta color miele, decorate con delicate incisioni, che esibivano un test di termoluminescenza che li faceva risalire al XII secolo d. C.
Allo stesso periodo storico si riferisce un'altra produzione autoctona di collane, quelle in bronzo, formate da perline sferiche, biconiche e a melone, alternate da catene a maglie e da importanti pendenti e pettorali (cat. 31A, 31B, 31C, 31D, 31E). Questi pendenti rappresentano l'intera tipologia di figurazioni apotropaiche della tradizione animista africana: primeggiano il serpente, la tartaruga, la rana, l'ippopotamo e la cavalletta, inoltre personaggi accosciati (tipici di Djenné), cavalieri ed una enorme quantità di oggetti di dubbia identificazione, legati ad ancora misteriose credenze. Nel medesimo contesto vengono ritrovati anche una grande varietà di orecchini (cat. 29), bracciali (cat. 26, 28, 30), anelli (cat. 29) e campane di uso cerimoniale
31.
Interessante è osservare che i materiali costitutivi del bronzo non erano reperibili nel territorio maliano o adiacente ma venivano importati dal Marocco sottoforma di verghe, come quelle scoperte da Theodore Monod nel 1962, nel Majabat al Koubra (deserto nord-orientale mauritano tra Marocco e Mali), tra resti di una carovaniera del XII secolo, sorpresa da una tempesta di sabbia
33.
La storia della fabbricazione delle perline di vetro a sud del Sahara è ancora oscura. Molti sono gli interrogativi sulle perline blu monocrome e ad occhio ritrovate nei siti medioevali di Djenné (cat. 41) e di Aouadaghost (Mauritania), se siano cioé importati dall'Egitto nel XII secolo o in epoca tolemaica, o se siano state prodotte in loco da mastri vetrai provenienti da quei luoghi presumibilmente tra ilVI e il XII secolo, come si deduce dal contesto archeologico
34.
Dal XVI secolo si ha notizia di produzione di perline di vetro nell'Africa sub-sahariana, negli odierni stati della Nigeria, Ghana e Mauritania. In Nigeria, ancora oggi, continua la tradizione nella città di Bida, dove, utilizzando vetro di recupero, si producono perline monocrome di fattura grossolana ma di notevole fascino. Da segnalare le grosse perline cilindriche e sferiche che imitano il corallo, l'ambra ed il turchese. Presso i Krobo, in Ghana, sono fabbricate le perline gialle a pasta opaca decorata con motivi descritti rossi, blu e neri, denominate bodom (cat. 49), molto ricercati per le loro proprietà magiche e di antica tradizione: pare che ne esistano esemplari che risalgono al XVI secolo
35. Da Kiffa, in Mauritania, provengono le omonime perline fabbricate con una tecnica del tutto particolare: su una base di vetro opaco fuso a goccia (probabilmente partendo da vetro rigenerato), vengono "scritti" motivi a occhio con decorazioni geometriche, con una policromia molto accesa a base di rossi, gialli e blu puri (cat. 48).

Augusto Panini